Service design & Change management: il contagio positivo per un approccio sistemico.
Come professionisti, ogni giorno ci interfacciamo con figure provenienti da ambiti accademici e disciplinari diversi: ci ibridiamo sul campo e ci mettiamo alla prova concretamente sui progetti.
Ogni ruolo viene selezionato per compensare le capacità dell’altro, alzare la qualità del team e fornire al cliente la squadra migliore per rispondere alle esigenze progettuali.
Col passare del tempo e delle esperienze maturate, ci siamo accorti come qui in Openknowledge questa multidisciplinarietà sia diventata uno dei punti di forza del nostro modo di fare consulenza.
È il caso dei Change management expert e i Service designer che spesso collaborano per trovare i pattern comuni e identificare la strada giusta con cui disegnare la soluzione progettuale. Due figure con background e punti di vista diversi, ma con approcci simili: entrambi mettono al centro le persone e progettano percorsi di trasformazione costruiti attorno al contesto, ai bisogni e alle aspirazioni degli utenti.
Negli ultimi mesi, la diversità tra questi due profili professionali ha generato sorprese, conferme e nuove opportunità, creando maggior valore per il cliente in tutto il suo processo di accompagnamento e cambiamento.
È da questo incontro che vogliamo partire per mettere in luce le convinzioni insite nelle discipline, scardinarle e raccontare le iniziative che hanno fatto la differenza.
Ri-conoscere gli strumenti delle proprie risorse
Pensate ad un problema comune: il mal di testa. Quando volete trovare la soluzione, oltre a prendere dei farmaci e a controllare su Google, a quale professionista tra medico, oculista e dentista vi affidate? Nessuna delle tre ipotesi sarebbe sbagliata, in quanto le loro cure, sebbene diverse possono risultare tutte e tre efficaci, si spera!
Ma cosa accadrebbe se tutte le figure, nel rispetto delle loro discipline, si confrontassero prima di agire?
Senz’altro affronterebbero il problema in modo più olistico, e ne uscirebbero arricchiti sempre se ben predisposti all’ascolto e all’autocritica. Probabilmente scoprirebbero che alcune convinzioni proprie non avevano una visione globale sullo stesso problema.
Quando osserviamo il problema da un singolo punto di vista, cioè quello di esperti in una singola disciplina, di tali convinzioni non ne siamo consapevoli finché un fattore esterno non ce le fa notare. Una miopia che ci fa commettere errori che talvolta provocano più danno rispetto all’intervento mai realizzato. Questo fenomeno è chiamato “iatrogenia”, ovvero la tendenza da parte del guaritore a causare danni con il suo intervento.
Nei progetti succede quando non ci si apre all’ascolto di altre figure professionali diverse dal nostro ambito di appartenenza, quando viene esclusa la possibilità di mettere in campo team eterogenei o quando expertise specifiche e verticali non hanno la possibilità di interfacciarsi con gli expert in altre tematiche.
La letteratura è colma di elenchi sui fattori di rischio di insuccesso dei progetti e di statistiche sulla scarsa efficacia della maggior parte delle iniziative aziendali, che siano esse svolte internamente alle organizzazioni o in collaborazione con i business partner. Più che scarsa efficacia possiamo dire che hanno un’efficacia separata, ovvero ottengono risultati soddisfacenti nella singola direzione, ma non nel complesso del sistema. Cosa significa? Significa che soffrono di miopia, che la soluzione studiata è stata portata avanti da un singolo ambito di competenza e che non sono stati calcolati gli impatti su tutte le variabili e gli attori dell’ecosistema aziendale. Ne consegue che il nuovo progetto non si collega bene a quelli esistenti, i dipendenti difficilmente si aprono all’adozione di nuove pratiche e i costi (reali o percepiti) superano i benefici e scoraggiano l’inserimento della nuova iniziativa.
In poche parole, si affronta il problema da un solo punto di vista e si rimane intrappolati in una soluzione nuova, ma già piena di ostacoli e frizioni, una soluzione destinata a non decollare, o nel caso del mal di testa, a non guarire dalla vera causa.
Avendo avuto l’opportunità di sperimentare il contagio fra Change management expert e Service designer, soprattutto in progetti di employee experience, ci siamo resi conto che il percorso è pieno di insidie. I momenti di analisi, di collaborazione, di formazione e di implementazione dimenticano a volte la presenza di alcuni fattori, provenienti dalla miopia della singola figura professionale, ma se conosciuti, fase dopo fase, possono essere evitati per non causare iatrogenia. Vediamo insieme quali:
- Fase di set-up:
- Identificazione degli obiettivi e delle problematiche da risolvere (anche a lungo termine), privilegiando attività dall’alto valore strategico (importanti) rispetto alle urgenze del Business as Usual;
- Sollecitazione del buy-in, ovvero il coinvolgimento di tutti gli stakeholder fin dalle prime fasi.
- Fase di progettazione:
- Presa in considerazione degli ostacoli (anche se scomodi da ammettere);
- Test delle soluzioni prima del go-live;
- Sviluppo delle soluzioni in modo partecipato e iterativo.
- Fase di lancio e implementazione:
- Prioritizzazione degli output ed eliminazione di quelli disallineati con le aspettative di tutti gli stakeholder;
- Coinvolgimento attivo dei diversi stakeholder nell’implementazione delle attività e iniziative come veri e propri agenti del cambiamento, per aumentare l’ownership e la responsabilizzazione verso le nuove soluzioni;
- Incentivo al committment degli stakeholder per la divulgazione e il monitoraggio.
Superare i pain point tradizionali
Prima di incontrarsi nel mondo della consulenza, il Change management e il Service design hanno operato per anni secondo i loro metodi, approcci e strumenti in solitudine, senza avere la possibilità di confronto ma soprattutto limitando le loro occasioni di scoperta.
Da un lato il Service Design concentrato sul disegno di nuove soluzioni per il miglioramento delle esperienze, dall’altro il Change management intento a sostenere il potenziamento e la crescita delle persone e delle loro capacità.
Riconoscersi in un “anche noi lo facciamo ma in modo diverso” o “questo strumento lo applichiamo in un’altra fase” sono state espressioni chiave che ci hanno permesso di far emergere punti di contatto, di sovrapposizione, ma anche mancanze.
Se da un lato i Service designer venivano (e vengono tutt’ora) coinvolti principalmente nelle fasi di ricerca e concettualizzazione iniziale, con una difficoltà a giungere ad una realizzazione dei concept sviluppati, dall’altro i Change management expert venivano (e vengono tutt’ora) chiamati a giochi fatti, per guidare ad esempio l’implementazione di un piano di cambiamento, con una conseguente entropia e difficoltà nel fare sense making.
Talvolta queste scelte influiscono nelle decisioni core fra le fasi progettuali, non permettendo alle due figure di incontrarsi, di interagire o semplicemente di passarsi il testimone, al fine di garantire un accompagnamento continuo e soddisfare le aspettative del cliente.
Progettare il cambiamento, Designing Sustainable Change
In OpenKnowledge la nostra natura è quella dell’ibridazione e contaminazione tra expertise, coinvolgiamo entrambe le figure aggregando le migliori skill di entrambi i profili per ottenere cambiamenti sistemici, efficaci e sostenibili nel tempo. Trasformando così i punti di debolezza in punti di forza.
Dall’esperienza vissuta ne sono nati 3 pillar condivisi che caratterizzano il nostro approccio ai progetti di new ways of working, adoption e digital transformation.
1. Human centered
Mentre il Service design porta un metodo nella ricerca sui comportamenti umani, il Change management aiuta ad interpretarli e a scalare la complessità. Insieme siamo in grado di affrontare l’introduzione di nuovi comportamenti, processi, strumenti e prodotti mantenendo la persona al centro della trasformazione, come utente e agente del cambiamento stesso.
2. Reiterazione
Lo strumento più utilizzato per evitare di ignorare la complessità è il testing delle soluzioni grazie ai prototipi o a progetti pilota. Questo permette di controllare i possibili fallimenti al fine di evitarli prima che la soluzione o il piano di Change siano implementati.
3. Partecipazione formativa
Ogni momento, ogni fase progettuale viene approcciata in modo partecipato con gli stakeholder e con gli utenti finali del prodotto, servizio, piano di change. In questi momenti ci si concentra non solo sul reperimento delle informazioni da parte degli stakeholder, ma anche sulla crescita stessa delle persone al fine di ottenere risultati positivi di ownership e accountability.
Gli artefatti concettuali sono co-ideati con gli attori tramite modalità nuove di partecipazione e coinvolgimento che permettono di far vivere a loro momenti veri di cambiamento, momenti di formazione sulle loro modalità di lavoro, convinzioni e idee.
La nostra sperimentazione
Ecco come la nostra esperienza multidisciplinare ci permette di arricchire progetti e attività:
- Creiamo momenti di coinvolgimento del management tramite attività di ascolto e co-creazione per la definizione dei pilastri delle nuove strategie di business e degli step necessari a raggiungerli. Il tutto tenendo conto delle esigenze, dei bisogni e delle aspirazioni dei diversi attori coinvolti, dell’organizzazione e del contesto in cui si trova;
- progettiamo eventi in cui i partecipanti hanno la possibilità di costruire, anche fisicamente, prototipi che permettano loro di vivere e comprendere un nuovo prodotto, un modello operativo o un processo, prima che esso venga implementato, così da sottolinearne benefici ed ostacoli;
- comunichiamo in modo creativo e tramite storytelling per aumentare l’efficacia ed il valore percepito delle attività di adoption o di up-skilling e re-skilling, così da essere accolte in modo favorevole da tutti gli interessati. Un caso di successo sono i nostri racconti di altri mondi che abbiamo utilizzato per clienti come UBI Banca e Generali;
- realizziamo artefatti formativi post-intervento, che lascino non solo un ricordo del percorso progettuale fatto con gli stakeholder, ma anche una guida per i comportamenti da adottare in futuro. Ad esempio i guide-book che rilasciamo dopo attività di adoption di piattaforme e processi, o i template che abilitano a successive attività di co-design da svolgere in autonomia.
Queste attività, portate avanti in modo collaborativo e sinergico fra i Service designer e i Change management expert, ci hanno permesso di sperimentare nuove modalità, fare delle riflessioni sul nostro mix di competenze e governare quei fattori di rischio che spesso diventano insidie nascoste nei percorsi progettuali.
Sono soluzioni che trasformano OpenKnowledge in un “laboratorio” aperto, dove vengono accolte le richieste del mercato e abbracciate le sfide delle organizzazioni, per diventare partner guida verso il cambiamento e la progettazione di soluzioni innovative.
Sono soluzioni, o attività risolutive, spesso molto semplici, che non sarebbero mai entrate nel nostro operare accademico da singoli esperti nella disciplina. Di certo non con la velocità ed efficacia con cui li abbiamo vissuti. Il valore dell’ibridazione delle discipline sta in questi dettagli fondamentali capaci di compensare le miopie che troppo ci fanno guardare il dito anziché la luna, magari con un buon paio di occhiali.