Great Resignation o Great Migration?
Comprendere il cambiamento per poter agire
Cos’è: numeri nel mondo
Concetto originariamente coniato da Anthony Klotz nel Maggio 2021, la Great Resignation descrive un’ondata record di persone che lasciano il loro lavoro durante la pandemia di Covid-19. In particolare, Klotz ha predetto l’aumento del numero di dipendenti dimissionari al termine della pandemia. Il fenomeno è quantomai reale: negli Stati Uniti, oltre il 3,4% dei lavoratori ogni mese abbandona il proprio posto di lavoro. Nel 2021, abbiamo già visto diverse ondate record. Gli Stati Uniti, in particolare, hanno registrato un numero impressionante di dimissioni nell’aprile 2021, per poi battere quel record di nuovo a luglio e, ancora, ad agosto [1]. Ma, osservando i dati relativi all’occupazione, questo non significa che le persone stanno lasciando il loro lavoro per entrare nel gruppo degli inattivi.
Per questo motivo, pensiamo sia più corretto parlare di Great Migration, come già diversi autori hanno iniziato a definire il fenomeno [2], o The Great Talent Migration, secondo la definizione di Benjamin Laker [3]. I lavoratori che decidono di abbandonare il loro posto di lavoro, infatti, non lo fanno per ritirarsi temporaneamente o definitivamente dal mercato del lavoro: alcuni cercano un lavoro che rispecchi meglio i loro bisogni, altri decidono di diventare lavoratori autonomi. Anche in questo caso, i numeri sono evidenti soprattutto negli Stati Uniti: 10 milioni di Americani affermano di considerare la carriera da freelancer come opzione per lavorare con la massima flessibilità possibile; queste 10 milioni di persone rappresentano un potenziale aumento dei lavoratori indipendenti del 17% rispetto al 2019 – un incremento piuttosto significativo.
La pandemia è solo una concausa: i lavoratori, ormai abituati ad una maggior flessibilità e autonomia nelle condizioni lavorative, abbandonano posti di lavoro in aziende che non si sono del tutto adeguate ai loro nuovi bisogni, per altri che consentano di equilibrare meglio lavoro e vita privata, o per diventare lavoratori autonomi. Secondo una ricerca di Upwork [4], tra tutte le professioni che durante le fasi più critiche della pandemia venivano svolte interamente da remoto, il 25% è tornato ad essere svolto negli uffici e un altro 38% tornerà in presenza nel medio termine. I professionisti non sono contenti: il 34% dei lavoratori che si era abituato al remote working afferma di essere scontento di un ritorno in ufficio, un 24% sarebbe addirittura disposto ad accettare una diminuzione di stipendio pur di tornare a lavorare da casa, e un altro 35% lo potrebbe prendere in considerazione.
La pandemia ha contribuito inoltre a modificare strutturalmente la tassonomia delle offerte di lavoro, rendendo molto diffusa la macro-categoria dei “Remote Job” ossia posizioni lavorative per le quali non è richiesta la presenza fisica in una determinata localizzazione geografica; questo, in particolare per i cosiddetti knowledge workers, ha determinato l’incremento delle possibilità di lavoro tra cui scegliere, potendo valutare l’offerta più in linea con le proprie aspettative senza considerare i vincoli relativi ai costi economici e personali da sostenere per il trasferimento della propria vita in un’altra città o in un altro paese.
E in Italia?
Questo fenomeno non è limitato solo agli Stati Uniti. Sebbene i numeri non siano altrettanto netti, anche in Europa il fenomeno sta diventando una realtà diffusa e riconosciuta. La Commissione Europea ha affermato che la definizione Europea di SME dovrebbe prendere in considerazione i lavoratori autonomi come una categoria a sé [5], legittimando nella definizione il più piccolo dei business, poiché essi rappresentano il segmento del mercato del lavoro europeo con il più alto tasso di crescita, con un incremento del 45% dal 2000 ad oggi. Le ragioni menzionate per abbandonare il proprio lavoro e diventare lavoratori indipendenti sono simili a quelle già esplicitate per i lavoratori statunitensi: il 46.8% vuole avere orari flessibili, il 37.4% vuole poter scegliere autonomamente i progetti a cui lavorare, il 36.9% vuole poter lavorare da qualunque posto.
Anche in Italia si iniziano ad intravedere i primi timidi segnali di questo trend, riportiamo alcune fonti per l’interpretazione di questo fenomeno:
secondo i dati della Banca d’Italia, nella primavera del 2021 il numero delle dimissioni si è attestato su valori superiori a quelli del 2019 (il trend non considera l’anno 2020 e i primi mesi del 2021 caratterizzati da un naturale atteggiamento dei lavoratori più conservatore rispetto al posto di lavoro a causa dell’incertezza generata dall’esplosione della pandemia). Nei primi dieci mesi del 2021 sono state rilevate 777mila cessazioni volontarie di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, 40mila in più rispetto a due anni prima. Nel terzo trimestre 2021, rispetto allo stesso periodo del 2019 le dimissioni sono cresciute del 20%.
secondo le comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro nel quarto trimestre del 2021 le cessazioni di rapporti di lavoro sono risultate pari a 3 milioni 497 mila e hanno riguardato 2 milioni 663 mila lavoratori (per almeno una cessazione), con un aumento tendenziale del 14,4%. È interessante notare che tale incremento risulta più consistente nei giovani, appartenenti alla fascia dei 15-24enni (+22,2%) e alla fascia dei 25-34enni (+16,1%). Una parte consistente di cessazioni (559.901) è riconducibile a dimissioni volontarie da parte del lavoratore.
A fronte di numeri così significativi riguardanti le dimissioni, si osserva un leggero aumento delle job-to-job transition [6] e un incremento del 18,2% delle partite Iva aperte nel corso del 2021 [7], con 549.500 nuove aperture, di cui 67,2% da persone fisiche. Questi incrementi sono tuttavia parzialmente riconducibili alla ripresa dopo l’anno 2020, in cui si sono osservati drastici cali di quasi tutti i fenomeni appena descritti, per cui sarà necessario osservare gli andamenti dei prossimi mesi per vedere confermato l’affermarsi di questo trend [8].
Un trend importante, in primis per le aziende
È necessario essere consapevoli del fenomeno e capire in quale misura l’aumento del turnover interno impatti l’organizzazione e /o aggravi direttamente la struttura di costo dell’azienda, andando anche oltre le considerazioni più immediate sui maggiori costi legati all’iterazione dei processi di screening, recruiting e onboarding per trovare, formare ed ingaggiare nuovi collaboratori in sostituzione di chi sceglie di lasciare il posto di lavoro.
L’aumento delle uscite può comportare rischi in termini di business continuity, dovuti in primo luogo alla necessità di redistribuire in tempi più o meno rapidi le responsabilità su attività e/o progettualità in corso. In più, chi va via dall’organizzazione potrebbe portare con sé contatti, competenze e conoscenze potenzialmente chiave, che se non sono state adeguatamente gestite mediante solide pratiche di knowledge management, assorbiranno ulteriori risorse per essere ricreate.
Inoltre, essendo il cambio di lavoro spesso accompagnato anche da un incremento retributivo, la crescita del turnover in un determinato settore professionale potrebbe alimentare una tendenza alla crescita nel costo medio delle professionalità sul mercato di un determinato territorio, che nel medio/lungo termine andrebbe ad incrementare direttamente il budget dedicato ai costi del personale.
In ultimo, la necessità di coprire le posizioni che rimangono scoperte da chi cambia azienda, oltre (come già detto) ad impegnare le strutture HR per l’iterazione dei processi di screening, selezione e onboarding comporta anche una più frequente distrazione del middle management da attività di coordinamento, strategia e sviluppo del business a causa dell’effort necessario per seguire adeguatamente i processi di selezione e formazione delle nuove risorse.
Comprendere, agire
Ci sono due possibili strade da seguire per adeguarsi a questo nuovo scenario: diminuire l’attrition e puntare ad aumentare la retention, oppure adattarsi al nuovo contesto lavorativo adeguando le proprie modalità di gestione del personale per rispondere ad un turnover strutturalmente più elevato e diventando più flessibili nelle modalità di acquisizione delle competenze sul mercato, adottando flexible talent models [9], ossia modelli che prevedono l’integrazione nei processi aziendali delle competenze di risorse esterne all’azienda la cui collaborazione non è subordinata ad un contratto di assunzione (si va dall’outsourcing di micro-task a freelancer on-demand accessibili tramite piattaforme digitali a collaborazioni di lungo periodo con professionisti a partita Iva).
Per poter agire sulla leva della retention, è fondamentale mantenere un focus puntuale sui bisogni dei dipendenti e sul loro grado di motivazione per il lavoro che svolgono, per essere pronti ad intervenire prima che nella persona maturi la volontà di ricercare (ed eventualmente accettare) un nuovo posto di lavoro. Oggi più di prima la comprensione ed il monitoraggio delle informazioni e delle metriche rappresentative delle esigenze della forza lavoro rappresentano uno dei principali strumenti con cui HR e Manager posso migliorare le strategie di employer branding aziendale (sia destinate alla popolazione interna che al mercato dei possibili candidati). Esiste una vasta gamma di analisi qualitative e quantitative sul tema, ma il punto di partenza è rappresentato dalla capacità di sintetizzare e schematizzare la complessità e varietà tipiche delle popolazioni aziendali.
Adeguarsi ad un aumento del turnover interno vuol dire accettare la riduzione del tempo medio di permanenza dei dipendenti in azienda ed agire di conseguenza per ridurre il “trauma” organizzativo dovuto alle uscite. In termini pratici, può essere ad esempio utile sfruttare i people analytics disponibili in ottica predittiva per calcolare la probabilità di uscita degli attuali dipendenti; l’integrazione di queste informazioni tra gli input dei processi di workforce planning potrebbe ad esempio far emergere l’esigenza di anticipare attività di screening su determinate posizioni ad alta probabilità di rimanere scoperte. Un costante ed approfondito monitoraggio delle competenze del personale consente inoltre di identificare rapidamente quali operatività organizzative sono più minacciate dalle decisioni professionali dei singoli, consentendo di agire in anticipo per capitalizzare e spersonalizzare le competenze più critiche mediante continui e diffusi interventi formativi e il continuo monitoraggio e aggiornamento delle modalità e degli strumenti di knowledge management aziendale.
I flexible talent models, d’altra parte, presentano diversi vantaggi: prima di tutto, consentono di scalare agilmente, sia in positivo che in negativo, assecondando la variabilità della domanda di lavoro. Lo staffing on demand, infatti, è citato dal seminale Exponential Organization [10] nel proprio modello come uno dei fattori caratterizzanti delle aziende capaci di navigare il futuro. In secondo luogo, modelli flessibili di gestione dei talenti permettono l’outsourcing di singoli task, laddove assumere un full-time equivalent non sarebbe giustificato a fronte dei costi diretti e indiretti sostenuti per un accordo di lavoro tradizionale, e contribuirebbe inoltre a rallentare il/i progetto/i. Inoltre, soprattutto per professionisti altamente qualificati, rivolgersi a risorse esterne permette di accedere a set di competenze innovative e sempre aggiornate alle ultime necessità del mercato.
Utile sottolineare, comunque, che l’adozione di modalità di flexible talent model necessita di valutazioni preliminari.
La prima riguarda la natura e le caratteristiche delle attività da gestire. Possibili aspetti da considerare nel valutare quali attività affidare a risorse interne e quali a risorse esterne riguardano i gap di competenze disponibili rispetto a quelle richieste dal task o progetto specifico, il grado di personalizzazione/specificità del task o progetto da compiere e la conseguente complessità nel formalizzare dei requisiti da comunicare, e più in generale tutti i costi di transazione diretti e indiretti associati alla collaborazione; tra i costi indiretti si sottolineano in particolare quelli legati all’on-boarding e gestione delle risorse esterne (direttamente proporzionali al grado di conoscenza e interazione con le strutture interne richiesto dall’attività) e la valutazione dei rischi in termini di sicurezza sul lavoro, GDPR e/o proprietà intellettuale (inclusa la relativa gestione burocratica ed amministrativa). In secondo luogo, è importante definire l’organizzazione (ruoli, processi e tecnologie) da costruire ed alimentare affinché l’iniziativa abbia successo.
L’adozione di professionisti esterni comporta modifiche rilevanti ai processi di selezione, le cui responsabilità potrebbero richiedere ruoli dedicati e/o non esclusivamente vincolati al perimetro HR (i referenti interni dell’attività potrebbero ad esempio avere maggiore autonomia nell’approvvigionamento delle competenze richieste tramite l’allocazione di budget dedicati all’attività, riducendo così i tempi dedicati alla comunicazione interna del need). È necessario ripensare alle modalità di onboarding ed ingaggio attraverso la standardizzazione e la digitalizzazione di tali processi per garantirne l’efficacia in tempi molto brevi.
Le modalità di lavoro e le tecnologie utilizzate potrebbero richiedere un aggiornamento/revisione per supportare in maniera adeguata l’inclusione dell’attività degli outsider nelle procedure operative (si pensi ad esempio all’adozione di strumenti efficaci per la collaborazione a distanza o a procedure agili nella gestione progettuale).
Punti aperti per il futuro
La Great Migration è senz’altro un fenomeno reale che stiamo osservando; è ancora recente, soprattutto in Italia, per poter affermare con certezza che stiamo osservando l’inizio di un trend: bisognerà osservare i numeri dei prossimi trimestri per verificarlo.
È anche necessaria cautela nell’affermare che sia un fenomeno nuovo: in seguito alla recessione del 2008 si è osservato un trend simile [11], con un boom di nuovi lavoratori indipendenti che ha avuto un culmine nel 2014 (i dati del Parlamento inglese parlano di 4,5 milioni di nuovi lavoratori autonomi). Se davvero la Great Migration fosse la ripetizione di un fenomeno già visto in passato, sarebbe doveroso approfondire i punti di somiglianza per capire se e in che misura possiamo derivare insegnamenti dal passato e applicarli alla situazione corrente.
Nonostante l’aumento della volatilità nell’occupazione possa essere considerato un fenomeno prevedibile dopo periodi di incertezza, va certamente ricordato che questa tendenza potrebbe essere alimentata oggi dalla crescente interconnessione globale e della possibilità, soprattutto per i knowledge worker, di accedere a un mercato del lavoro sempre più vasto in cui vendere le proprie competenze a chi offre le migliori condizioni lavorative (o più in linea con le proprie esigenze e aspettative).
In ogni caso, a prescindere dal trend, la priorità per le organizzazioni è dotarsi degli strumenti per poter gestire in modo rapido e agile i cambiamenti, a partire da una cultura manageriale che separi la necessità di disporre delle competenze richieste per garantire la continuità del business dal mantenere rapporti lavorativi di lungo termine con le proprie persone.
Fonti
[1] Chris M. Walker, The Great Resignation And Freelancing (2022), Forbes – https://www.forbes.com/sites/forbestechcouncil/2022/02/02/the-great-resignation-and-freelancing/?sh=319067cf3063
[2] Josh Bersin, From The Great Resignation To The Great Migration (2021), Insights on Corporate Talent, Learning, and HR Technolog – https://joshbersin.com/2021/12/from-the-great-resignation-to-the-great-migration/
[3] Benjamin Laker, The Great Resignation And Great Talent Migration (2022), Forbes – https://www.forbes.com/sites/benjaminlaker/2022/01/26/the-great-resignation-and-great-talent-migration/?sh=304feb333fef
[4] Adam Ozimek, The Great Resignation: From Full-Time to Freelance (2021) – https://www.upwork.com/research/the-great-resignation
[5] Lindsay Liedke, 50+ Freelance Statistics For 2022: Stats, Facts & Trends (2022) – https://startupbonsai.com/freelance-statistics/#2-european-%E2%80%93-freelance-statistics
[6] webinar “Is the Great Resignation Going Global?”, organizzato da OECD – OCDE, dati da Comunicazioni obbligatorie del Ministero del Lavoro
[7] MEF, Osservatorio sulle partite IVA – Sintesi dei dati delle aperture nell’anno 2021, MEF, Osservatorio sulle partite IVA – Sintesi dei dati delle aperture nell’anno 2020, MEF, Osservatorio sulle partite IVA – Sintesi dei dati delle aperture nell’anno 2019
[8] Comunicazioni obbligatorie Ministero del Lavoro (IV-trimestre-2021)
[9] Adam Ozimek e Christopher Stanton, Remote Work Has Opened the Door to a New Approach to Hiring (2022), Harvard Business Review – https://hbr.org/2022/03/remote-work-has-opened-the-door-to-a-new-approach-to-hiring?ab=hero-main-text
[10] Salim Ismail, Exponential Organizations, Marsilio, 2015
[11] UK Parliament, The self-employment boom: Key issues for the 2015 Parliament – https://www.parliament.uk/business/publications/research/key-issues-parliament-2015/work/self-employment/
Debbie Cohen e Kate Roeske-Zummer, With So Many People Quitting, Don’t Overlook Those Who Stay (2021), Harvard Business Review – https://hbr.org/2021/10/with-so-many-people-quitting-dont-overlook-those-who-stay
Autori
Francesca Guzzetti, Giulio Ottaviano